Per avvicinarci al Natale, sulla Rivista Dalle Api alle Rose di novembre-dicembre, la nostra collaboratrice Rita Gentili ha chiesto al giovane agostiniano Padre Michele Falcone, impegnato soprattutto con gli adolescenti, di accompagnarci a riflettere sulla figura di Cristo Re, tra l’altro Solennità che ha aperto l’Avvento ricordandoci il dominio di Dio nella nostra esistenza, per gestire i poteri e le responsabilità a cui siamo chiamati verso gli altri e il mondo.
Cristo è stato Re mettendosi al servizio dell’umanità e non dominandola: cosa possiamo imparare da lui?
Diventare Re è una dimensione di amore, di dono. Perché una persona ti obbedisca, ti devi proporre, ti devi donare. La gente non ti obbedisce perché sei più forte, ma perché tu ami e sei disposto a dare tutto per essa. È lì che scatta la reazione, un’obbedienza che non è sudditanza ma crescita. Cristo non è Re dell’Universo perché è più potente ma perché si è donato. Ci siamo soffermati spesso su questo concetto con i ragazzi ai nostri campi, perché capita che gli adolescenti si propongono ai più piccoli chiedendo obbedienza per il solo fatto di essere più grandi; ma non è così che funziona.
Quanto è importante aprirsi ai consigli degli altri?
Come società, siamo portati a credere che se siamo autosufficienti siamo completi; inoltre desideriamo essere infallibili, non sbagliare mai. Quando cadiamo nell’errore, oggi più che in passato, facciamo fatica ad accettarlo e cerchiamo di deresponsabilizzarci.
Riuscire, invece, ad accettare che possiamo sbagliare e che la vera forza è nella condivisione è un passaggio non facile ma che, una volta sperimentato, diventa un autentico colpo di scienza, perché ci si scopre più forti. E nella misura in cui si condivide, si sperimenta anche l’amore delle persone che ci circondano.
Come possiamo diventare “piccoli re” sull’esempio divino nelle scelte quotidiane?
Tenendo uno sguardo molto ampio, aperto e nel momento in cui ci confrontiamo con gli altri, evitare la logica del giudizio. Umanamente siamo portati a farlo, perché attraverso il giudizio inscatoliamo la realtà e la semplifichiamo. Ma il nostro giudizio spesso porta a sottovalutare o semplificare eccessivamente la realtà. Noi tutti siamo chiamati a interagire con le libertà degli altri e più che giudicare dovremmo domandare, soprattutto con i giovani.
Essere re, secondo il modello di Dio, significa chiedere perché si è fatta una certa scelta; spronare a non fermarsi all’errore, perché non è quello che definisce la persona, ma a trovare una soluzione alternativa; a usare la libertà che abbiamo per un bene maggiore. Non è un percorso facile perché l’essere umano di fronte alla difficoltà tende a chiudersi ma è nell’apertura che risiede la grazia.
L’ho sperimentato quando in un oratorio abbiamo avuto problemi con ragazzi che spacciavano e che io seguivo. Mi opposi alla proposta di far incontrare questi ragazzi con altri adolescenti di altre parrocchie, temendo potessero essere di cattivo esempio. Ma il sacerdote responsabile dell’incontro mi fece capire che impedendo l’incontro, non facevo del bene perché non mostravo a questi ragazzi che c’era una alternativa alla vita che stavano vivendo. E aveva ragione. Oppure pensiamo a un ragazzo che viene bocciato; spesso i genitori lo puniscono impedendogli di uscire, di partecipare, anche alle gite dell’oratorio. E invece quanto sarebbe più utile spronare quel giovane a responsabilizzarsi verso qualcos’altro, a spendere la sua vita per qualcun altro.
É ciò che ha fatto nostro Signore con la croce: poteva agire in maniera diversa ma è solo attraverso quel dono che è riuscito a trasmetterci un modo nuovo di vivere la libertà, mostrandoci una via per fiorire nei nostri contesti.