“Ci sono tante definizioni di giustizia riparativa. Per la mia esperienza
[…] la giustizia riparativa è la giustizia del ritorno. Ritorno a una possibilità di vita libera e piena per tutti coloro che hanno sperimentato l’orrore dell’irreparabile, per averlo causato o per averlo subito, e ne patiscono le conseguenze durature. Conseguenze che sono come scorie radioattive che occorre trattare e smaltire, disarmarle perché non sfigurino più vite e persone”.
Così Agnese Maria Moro, figlia di Aldo Moro, ex Presidente del Consiglio sequestrato e assassinato dalle Brigate Rosse nel ‘78, racconta in Dalle Api alle Rose. E ricorda come nell’antivigilia di Natale del 2009, un invito apparentemente ordinario, quello di Padre Guido Bertagna, ha aperto le porte a un viaggio straordinario di riconciliazione e guarigione per coloro che hanno vissuto gli orrori della lotta armata degli anni ’70 e ’80.
Si è trattato di un incontro tra vittime e responsabili, tra chi ha subito il terrore dell’irreparabile e chi lo ha inflitto, per poter scoprire “persone e non fantasmi”; togliendo ai responsabili “la maschera del mostro e a me quella della vittima e ritrovarsi persone, ferite, ma insieme”.
Un luogo pieno di sorprese
Per chi ha vissuto questa esperienza, la giustizia riparativa non è solo una teoria, ma una realtà vissuta. È il ritorno a una vita libera e piena per tutti coloro che hanno sperimentato il trauma e le conseguenze durature della violenza. È il riconoscimento che l’irreparabile non può essere cancellato né curato, ma che le ferite possono essere affrontate e disarmate.
La giustizia riparativa si manifesta attraverso un invito al dialogo, offrendo “un luogo libero (si entra se si vuole, si esce quando si vuole), riservato, rispettoso in cui poter incontrare, dire e ascoltare; con un accompagnamento discreto, esperto, “equiprossimo”, ovvero ugualmente vicino agli uni e agli altri, onesto”.
Per Maria Agnese Moro “è stato un luogo pieno di sorprese: l’umanità che non va perduta anche se l’hai fatta grossissima; il loro atroce dolore per aver fatto cose terribili pensando di fare il bene dei poveri e del mondo; la loro generosità (perché sottoporsi all’incontro con noi dopo aver scontato tutti la propria pena con tanti anni di carcere orrendo? Non devono più niente né a me né a nessuno, eppure sono qui a fare qualcosa di estremamente doloroso). Sorpresa sono anche i loro visi anziani, come il mio, a dimostrazione che ciò che è avvenuto è sempre orrendo, ma non è oggi. E il passato lentamente va al suo posto, dietro di noi”.
“Sorpresa è vederli disarmati e disarmarmi – continua – e non dimenticare né annacquare nulla di ciò che hanno fatto, ma volergli bene ed essere amici”.
La pena serve alla rieducazione
“Non parla di questo l’articolo 27 della Costituzione quando dice che la pena serve alla rieducazione?”, si chiede Maria Agnese.
“Ci si rieduca per tornare. Li rivogliamo tutti. Ma questo ritorno o è per tutti o non è per nessuno. Non posso tornare senza di loro, né loro possono tornare senza di me. E né loro né io possiamo tornare se non ci accogliete”.